23.10.2017 – l’omelia dell’Arcivescovo Delpini


KAROL WOJTYLA HA COMINCIATO DA GIOVANE A DIVENTARE SANTO
Omelia di S.Ecc. mons. Mario Delpini, Arcivescovo di Milano
Basilica di S. Ambrogio, 23 ottobre 2017

(Vedi sotto per la trascrizione dell’omelia)

Prima di essere Giovanni Paolo II era stato Karol Wojtyla. Prima di essere il papa che in tutte le piazze del mondo entusiasmava i giovani, Karol è stato un giovane, un operaio, uno studente, un seminarista. Prima di essere il vecchio malato che commuoveva i giovani del mondo per la sua tenacia, è stato il giovane vigoroso, forte, sportivo, che recitava, sciava, organizzava camminate nei monti. Prima di essere là a convocare milioni di persone da ogni parte del mondo per l’ultimo tributo alla sua morte, era in ogni parte del mondo, a piangere, a gridare contro ogni morte ingiusta, contro ogni violenza dell’uomo sull’uomo. Prima di essere stato vecchio, Giovanni Paolo II è stato giovane. Vorremmo esplorare quale giovinezza abbia propiziato il cammino che l’ha condotto fino alla santità. Il Vangelo che è stato proclamato dice in sostanza della vicenda che conduce alla santità, e forse possiamo raccogliere l’annuncio che il Signore ci rivolge stasera, attraverso la testimonianza di Giovanni Paolo II, in due parole irrinunciabili. La prima parola è sequela. E’ il compimento della vocazione, è l’incontro con Gesù che chiama a seguirlo e convince a partire. E’ quel modo di intendere la vita che la libera dal pericolo di essere un esperimento, una semplice serie di esperimenti, il pericolo di ridurre la vita a un parcheggio, a un sostare senza più sapere dove sia la via d’uscita da questa sosta, da questo essere “parcheggiati”. E’ un modo di intendere la vita, questa “vita come sequela”, che la libera dal pericolo di sentirsi una barchetta fragile in balia delle onde, cioè delle coincidenze e delle mode che trascinano di qua e di là.  La sequela è la decisione di essere discepoli fino alla radicalità della conformazione. Non si tratta tanto o soprattutto di scegliere uno stato di vita, ma di avere la determinazione, l’umiltà, la fierezza di praticare lo stile evangelico in ogni cosa. Lo stile evangelico significa un certo modo di vivere gli affetti, i rapporti di amicizia e di amore. Lo stile evangelico significa un certo modo di animare lo studio, significa un punto di riferimento che fornisce un criterio per giudicare tutta la vita, per giudicare l’uso del tempo, l’uso dei soldi, il modo di abitare la casa. Intendere la vita come sequela in obbedienza a una vocazione è quello stile che dà fondamento alla stima che io posso avere di me, e dà motivazione al senso di responsabilità, per mettere a frutto i talenti ricevuti. Lo stile di vita richiesto dalla sequela conduce poi ad avere dei criteri per le scelte, che decidono che cosa devo fare della mia vita. La scelta definitiva di sposarsi, o di consacrarsi nelle diverse forme di speciale consacrazione, non è un’impresa solitaria, e non è neppure una reazione emotiva alle circostanze in cui capita di trovarsi, come chi si trova per caso innamorato e decide di sposarsi: non è un’impresa solitaria, lo stile evangelico fa di questa vicenda d’amore una vocazione, così come per tutte le altre forme di decisioni definitive. Vocazione vuol dire che il dialogo con il Signore, la docilità allo Spirito e la condivisione del cammino di Chiesa rendono queste scelte passi verso la santità, e non soltanto sistemazioni rassicuranti, o eroismi personali, o condizionamenti subiti. Ecco la prima parola: sequela. Così Karol ha vissuto la sua giovinezza. Da giovane ha deciso di seguire Gesù, senza volgersi indietro, senza lasciarsi imprigionare o rallentare dai legami con la famiglia o con gli amici e le amiche, senza lasciarsi spaventare dalle conseguenze che la sequela poteva comportare. Così preghiamo Karol Wojtyla, San Giovanni Paolo II, perché aiuti i giovani di oggi a intendere la giovinezza come il tempo per decidere la sequela.

E la seconda parola è amicizia. L’amicizia è quel legame di affetto ricambiato, di condivisione di pensieri, di esperienze, di parole, di tempo e di sogni che rende piacevole incontrarsi e stare insieme. Karol Wojtyla ha vissuto intensamente le amicizie che si sono consolidate nella giovinezza e sono state un balsamo durante tutta la sua vita. L’amicizia, in particolare l’amicizia giovanile, può essere una grazia impagabile se diventa passione condivisa per un sogno, per una vita donata, se diventa un guardare insieme verso il futuro. Che grazia essere amici e andare insieme nelle strade della vita! L’amicizia, l’amicizia giovanile, può essere una grazia impagabile perché il pensiero che aderisce alla verità abita nelle dimore dell’amicizia. La verità, questa parola che oggi sembra quasi proibita. La verità è la scoperta più appassionante, è la risposta più luminosa all’inquietudine. La verità è quel percorso che incoraggia a cercare ancora, ma senza l’affanno di perdersi, e sempre abitati dallo stupore. Perché la verità non è una frase scritta su un libro, non è la soluzione di un qualche problema cervellotico, la verità è Colui che era, che è e che viene, la verità è un’amicizia in cui il Signore Gesù si rivela, si confida, insegna a pensare i pensieri di Dio. E ai giovani – i giovani che si appassionano alla discussione, che si entusiasmano delle scoperte, che tutto sottopongono a critica, e insieme tutto raccolgono con gratitudine – dico che la verità, che cerchiamo insieme, è il dono dell’essere amici. Il futuro del mondo si nutre del gusto del bene, condiviso tra gli amici. Questi gruppi di amici che tra le macerie dell’Europa degli anni ‘40 si chiedevano quale Chiesa pensavano di costruire, quale città pensavano di configurare, ecco questi giovani un po’ clandestini e un po’ temerari forse possono richiamare anche noi, anche coloro che oggi sono giovani, a domandarsi – tra le rovine di questa società esausta, tra le rovine di questa globalizzazione di mercanti, in un’Europa degli affari e delle paure – forse i giovani d’oggi da qualche parte, forse semiclandestini, potranno pur domandarsi: ma noi che Chiesa sogniamo? Per quale società mettiamo mano all’impresa di aggiustare il mondo? L’amicizia è il luogo dove questi pensieri, queste discussioni, questi sogni condivisi possono attecchire e fruttificare. Nessuno può cambiare il mondo da solo, ma dei gruppi di amici che guardano avanti e che si sostengono insieme possono aprire un cammino. L’amicizia in realtà è l’esito della sequela, se vuol essere un’amicizia che costruisce. Gesù dice che non aveva “dove posare il capo”, però sapeva bene di poter riposare nella casa di Betania. Perché? Perché era molto amico di Marta, di Maria e di Lazzaro. Così chi non ha casa ma ha amici trova sempre un posto dove posare il capo. Così chi segue Gesù forse non saprà dove andrà a dormire una notte, ma sa che gli amici sono lieti di ospitarlo. Gesù sembra dominato da una fretta e non lascia tempo di seppellire i morti,  ma piuttosto spinge perché insieme, insieme si deve compiere l’impresa e dare vita, vita nuova, alla terra morente. Gesù non lascia neppure il tempo di salutare quelli di casa, ad ascoltare il Vangelo di oggi. Ma è perché offre ai suoi amici la dimora dell’amicizia, e costruisce un nuovo modo di essere casa, di essere famiglia, di essere insieme. Perciò non chiamate amicizia quella di chi ti invita dicendoti: usciamo a bere qualcosa. Non chiamate amicizia quella di chi ti coinvolge nel tempo perso, nelle chiacchiere inconcludenti, nei divertimenti dispersivi. Piuttosto chiama amico chi ti incoraggia a dar lode a Dio, chi alimenta la passione per la verità, chi insieme a te pensa pensieri nuovi e apre vie nuove, e condivide le gioie e  il travaglio di portare alla luce speranze più grandi e amori più veri. Ecco, il giovane Karol Wojtyla ha cominciato da giovane a diventare santo. E ci suggerisce stasera di imitarlo in questa vocazione. Due parole ci consegna come irrinunciabili: la sequela di Gesù, e l’amicizia che cerca la verità e si appassiona all’impresa di portare alla luce un mondo in cui sia bello abitare.