Giovanni Paolo II teologo – intervento di don José Maria Galvàn

GIOVANNI PAOLO II TEOLOGO
Intervento di don José Maria Galvan, 29 novembre 2013

Riportiamo di seguito una libera trascrizione (e rielaborazione) del ricco intervento di don José Maria Galvan sul lavoro teologico di Giovanni Paolo II.


Buonasera a tutti e grazie per il vostro invito.
Parlare della teologia di Giovanni Paolo II in così poco tempo è praticamente impossibile, ci vorrebbero interi seminari. Io credo che per trovare una persona che abbia espresso una teologia così potente bisogna risalire forse fino a S. Agostino! E questo grande contributo è stato sviluppato quando Wojtyla era già papa, il che è ancora più raro.


Introduzione: la disputa teologica prima del pontificato di Giovanni Paolo II

Nel Rinascimento l’uomo vitruviano è la misura di tutte le cose, in quanto immagine di Dio.
Per capire la logica del Rinascimento si può pensare alla “Madonna delle rocce” di Leonardo Da Vinci, che è conosciuta come capolavoro artistico, ma anche riconosciuta nella letteratura scientifica per la quantità dei dati botanici e naturali che contiene, da cui si deduce che Leonardo era uno dei maggiori botanici del suo tempo. Questo è un esempio della mentalità rinascimentale: Leonardo non ha scritto un trattato di botanica, ma ha dipinto la Madonna delle rocce! Cioè il Rinascimento fondeva insieme la tecnica con lo “sguardo”, uno sguardo artistico capace di entrare in rapporto con la trascendenza.

Le cose cambiano, come sappiamo, con il pensiero di Cartesio, il quale ha convito l’umanità che la verità coincide con la certezza, cioè che la verità è patrimonio della mia ragione. Sostituire la verità con la certezza ha creato un enorme problema, una sorta di “bomba a orologeria” esplosa definitivamente nel XX secolo. Il fiorire delle scienze si è accompagnato alla riduzione della ragione alle coordinate “spazio – tempo” (di origine kantiana). Si è così prodotta la separazione tra le scienze pratiche e rigorose (quindi vere e razionali) da una parte, e le scienze dello spirito (considerate secondarie perché non inquadrabili secondo coordinate scientifiche propriamente dette) dall’altra. Una scissione irreparabile che ha di fatto messo nell’angolo la teologia. Cosa potevano fare i teologi in questo contesto? Ci sono due strade:

–         proseguire come se niente fosse stato, cioè come se si fosse ancora nel Medioevo (soluzione prevalentemente della teologia orientale o ortodossa);

–         cercare una forma di dialogo con l’universo delle scienze. Questa è la strada seguita dai teologi luterani e in parte cattolici. Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano tedesco, profondamente colpito dallo spettacolo della scienza, elabora la sua “teologia della secolarità”: Dio non deve essere considerato come un “tappabuchi” per spiegare una realtà altrimenti incomprensibile. Dio ha un ruolo solamente all’interno dell’essere dell’uomo, mentre non è importante l’appartenenza esteriore al cristianesimo. La teologia della secolarità si evolve poi come teologia della morte di Dio, producendo un cristianesimo quasi a-religioso. Pierre Teilhard De Chardin, teologo cattolico, sostiene invece che questo spettacolo della scienza è incentrato in Cristo, il quale è appunto il centro del cosmo e dell’universo (“cristocentrismo”). Poi però  rischia di scivolare verso la riduzione di Cristo all’ambito del cosmo, proponendo un’incarnazione in chiave eccessivamente hegeliana, vista come evoluzione stessa del cosmo.


Il contributo di Karol Wojtyla a partire dalla Gaudium et Spes: il “cristocentrismo”

Nella Chiesa cattolica si manifestava quindi l’esigenza di fare i conti con questa situazione, generata dal grande progresso scientifico e dall’accelerazione storica del XX secolo. C’era una tendenza molto forte verso la secolarizzazione. Karl Rahner proponeva l’idea di un “cristianesimo anonimo”: mi chiamo cristiano ma in fondo non aggiungo nulla a ciò che è essere uomo. Parallelamente, accenniamo, “incarnazionisti” ed “escatologisti” si contrapponevano, dibattendo sul ruolo dell’impegno umano nella storia. Si trattava in definitiva di riscoprire la centralità di Cristo senza perdere però l’attenzione alle novità del mondo e della storia.

Il Concilio Vaticano II cerca di rispondere a queste sollecitazioni. La Gaudium et Spes (che Benedetto XVI ha definito il documento più importante del Concilio) propone finalmente una soluzione. In che modo ciò riguarda Giovanni Paolo II? La Gaudium et Spes è stata di fatto scritta con il contributo determinante e risolutivo di Karol Wojtyla. E’ opportuno ricordare che la storia di questo documento è stata travagliata. Pressoché finiti i lavori del Concilio, si stentava a trovare un testo definitivo per questa costituzione. Paolo VI diede una sorta di ultimatum, a seguito del quale si riunì una commissione speciale, detta commissione di Ariccia. Questa commissione riuscì finalmente a trovare la quadra.

I punti 22 e 24, capitolo I, della Gaudium et Spes sono peraltro i due testi di gran lunga più citati da Giovanni Paolo II durante il suo successivo magistero, e Giovanni Paolo II  ha più volte affermato che l’obiettivo del suo pontificato sarebbe stato quello di attualizzare e realizzare i contenuti del Concilio Vaticano II, e la Redemptor Hominis, sua prima enciclica, va in questa direzione.

Il punto 22 di Gaudium et Spes tratta del cosiddetto “cristocentrismo”. Cristo è il centro del cosmo in quanto Verbo di Dio incarnato. E’ colui che rivela l’uomo all’uomo. L’incarnazione non vuol dire solo che la seconda persona della Trinità si è fatta uomo, ma anche che Dio si è unito ad ogni uomo. Si passa così da una cristologia dal basso, troppo umana (si veda il citato Teilhard De Chardin) a una cristologia basata su Verbo.

Noi siamo a immagine di Dio in Cristo, come dice la Sacra Scrittura. Ciò a cui ci porta il Verbo è il dialogo intratrinitario, un dialogo di conoscenza e di amore (Dio padre conoscendo genera il Verbo e amando fa procedere lo Spirito Santo). “Il Signore Gesù, aprendoci prospettive inaccessibili alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nell’amore. Questa similitudine manifesta che l’uomo […] non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé” (verità e amore come chiave dell’esistenza dell’uomo, incarnata).

Proprio questo è anche il fulcro della prima enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis. Cristo in quanto Verbo incarnato manifesta nella maniera massima possibile l’amore di Dio per l’uomo (“la dimensione divina dell’incarnazione” come dice GPII). E c’è poi anche una dimensione umana dell’incarnazione, tramite cui si manifesta il massimo amore dell’uomo a Dio.


L’inclusione della materia nel dialogo trinitario

Più avanti, nell’enciclica Dominum et Vivificantem, viene fatto un passo storico dal punto di vista teologico (al pari, per esempio, di quello di Agostino col concetto relativo di persona, di Tommaso con il concetto della relazione che in Dio si identifica con la sussistenza, al pari della definizione della grazia da parte del Concilio di Trento ecc…). Al n. 50 dell’enciclica si dice che non solo l’incarnazione è l’unione di Dio con ogni essere umano. Ma essendo l’uomo anima e corpo simultaneamente, Dio incarnandosi si è unito anche al cosmo. “L’incarnazione ha una cosmica dimensione”. Dunque si verifica un’assunzione di tutto il mondo materiale all’interno del dialogo intratrinitario! La materia non è un ambito escluso da quel dialogo nella verità e nell’amore.

Da qui discendono anche importanti conseguenze pratiche. Ad esempio Giovanni Paolo II sostiene che è inaccettabile considerare il mondo scientifico come lontano dalla verità di Dio e al di fuori della logica della rivelazione (si veda il Discorso all’accademia delle scienze tedesca del 1980). “La tecnica è dono fraterno ai nostri fratelli uomini, dovuto ai fratelli come al povero è dovuto l’atto di misericordia”.


Esegesi biblica

Un’altro contributo importante e innovativo di Giovanni Paolo II è l’originalità della sua esegesi biblica. In questo ambito ad esempio è interessante il parallelismo “Babele-Pentecoste”, che può essere considerato come un vero “sigillo” di questo papa. L’uomo, osserva Wojtyla, ha voluto raggiungere il cielo con i propri mezzi, con la propria tecnica. Cos’è la Torre di Babele? Il tentativo dell’uomo che ha cacciato il Verbo, lo Spirito di Dio, e cerca di realizzarsi da solo. La conseguenza di questo fatto è la confusione delle lingue, che non è affatto una punizione divina, ma piuttosto una conseguenza logica e inevitabile dell’abbandono del Verbo. L’uomo, privato del Verbo di Dio, perde la propria dimensione simbolica, sa comunicare ma non dialogare, come i pezzi di un computer. Con l’Incarnazione, all’uomo è donato nuovamente il Verbo, fino alla Pentecoste, quando gli Apostoli ricevono lo Spirito e riacquistano il dono delle lingue, la capacità di dialogare!

Nell’enciclica Dives in Misericordia c’è invece un’interpretazione molto originale della parabola del figliol prodigo. Per Wojtyla ciò che è messo al centro nella parabola è la capacità o meno di leggere la dignità umana. Il figlio prodigo vede il padre come fonte di soldi e non come persona, è in qualche modo la stessa logica di Babele: “la felicità viene dai soldi”. Il figlio cerca di arrivare alla pienezza di sé stesso seguendo questa logica, considerando le persone come cose da comprare (le prostitute). Addirittura, anche quando si rende conto di aver sperperato tutti i soldi, mantiene la stessa logica: torna indietro non come figlio, ma pensando di tornare e diventare un salariato. Sicuramente il figlio pensava: avrò uno stipendio, ricomincerò pian piano… cioè il figlio della parabola è ancora nella “vecchia” visione della propria realtà. Il Padre invece cambia questa logica! La sua Misericordia vuole recuperare la perduta dignità di quella persona. E’ un cambiamento di visione: “era morto ed è risorto”. La capacità di vedere la persona è una diretta conseguenza del cristocentrismo.


Il “materialismo cristiano” nella Lettera alle Famiglie

Infine nella Lettera alle Famiglie la visione teologica e il cristocentrismo sviluppato nelle tre citate encicliche trovano la propria applicazione più concreta. Nella lettera, il Papa contrappone la civiltà del profitto alla civiltà dell’Amore. In questo contesto, la biologia, la procreazione, vengono considerate come la vera e propria genealogia dell’immagine di Dio! Si specifica ancora meglio il pensiero di Giovanni Paolo II che potremmo definire come un vero e proprio “materialismo cristiano”: ogni realtà creata da Dio, anche la più materiale, è in definitiva inserita tramite Cristo all’interno del dialogo intratrinitario.