“Il cristianesimo, la Chiesa deve tornare ad essere un corpo unito. Siamo scheggiati come società, ognuno ragiona da se e si pensa da solo. L’uomo deve tornare ad accogliere la Misericordia come Amore rigenerante e la fascinazione che viene dalla Grazia”. Risuonano forti nella stanza e nel cuore le parole di padre Marco Salvioli, frate dell’Ordine dei Predicatori, presbitero presso la basilica di Santa Maria delle Grazie e docente di Filosofia a Milano e Bologna. Il tema della terza serata, organizzata dall’Associazione “Milano per Giovanni Paolo II” venerdì 14 febbraio 2014, è la “Dives in Misericordia”, la seconda enciclica del Pontefice, scritta nel 1980.
Il Papa spiega il titolo del testo accostando due affermazioni bibliche: quella del Cristo che, essendo il Figlio, ci rivela il Padre (“Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” contenuta in Gv 1,18) e quella del Padre che Cristo ci rivela nella sua morte e Resurrezione con Misericordia (Noi tutti, dice Paolo, eravamo morti per i nostri peccati, poiché vivevamo alla maniera di questo mondo, seguendo i desideri della carne e quindi non meritavamo che la dannazione. “Ma Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù”, ripresa in Ef 2, 4-7).
Un testo biblico chiaro nell’affermazione che Dio in Cristo ha operato la salvezza dell’uomo per il suo grande Amore, per puro dono, per sola grazia. Il Pontefice, intitolando la lettera alla Misericordia divina, ha davvero centrato il cuore della Rivelazione di Dio in Cristo. “Dio assume la natura umana e rivela il volto del Padre e l’uomo all’uomo”, spiega padre Marco. Il pensiero corre alla prima Enciclica di Giovanni Paolo II, promulgata due anni prima con il titolo “Redemptor hominis”. Seguendo la dottrina del Concilio Ecumenico Vaticano II, il Pontefice aveva dedicato la sua attenzione “alla verità intorno all’uomo, che nella sua pienezza e profondità ci viene rivelata in Cristo”. Cristo svela all’uomo la sua vera dignità, il suo vero volto. La missione della Chiesa è dunque quella di camminare “su questa via che conduce da Cristo all’uomo, su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo… La Chiesa desidera servire quest’unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell’amore che da essa promana”. Il Papa sembra far risuonare l’invito proclamato nel giorno della sua elezione, il 16 ottobre 1978: “Spalancate le porte a Cristo”, perché Lui solo può illuminare il mistero della vita e svelare il senso della storia.
Le due Encicliche spiegano quell’affermazione centrale del Vaticano II a proposito della dignità della persona umana. La Chiesa portando Cristo all’uomo gli offre la verità e l’amore, la salvezza (= antropocentrismo cristiano). Ma il Cristo attua la salvezza dell’uomo portandolo con sé nel seno del Padre, sorgente ultima della verità e dell’amore (= teocentrismo cristiano). Viene così superato il falso dilemma della cultura contemporanea secondo cui l’uomo o sceglie Dio accettando di annullarsi e alienarsi rinunciando alla propria realizzazione, o sceglie l’uomo che deve fare da solo la storia per costruire il suo proprio mondo, escludendo Dio come antagonista. Il Papa afferma: “l’uomo proprio e solo seguendo il Cristo arriva al Padre e lì realizza divinamente se stesso. E questo grazie e ad opera del suo infinito Amore Misericordioso che compie le infinite aspirazioni del cuore umano”. Come ci ricorda padre Marco, “la natura umana è destinata a una libertà infinita, che l’uomo perde quando decide di usarla male”. Quando l’uomo rifiuta l’idea della misericordia, anzi mostra allergia alla stessa parola, preferendo quella della giustizia. Un rifiuto che sembra tradire oltre che una comprensione non esatta del messaggio di Dio, anche una presunta autosufficienza dell’uomo che, se ha operato enormi progressi, nasconde profonde angosce e debolezze, contraddizioni e ingiustizie. “La Misericordia biblica è reciprocità donata tra il Creatore e la creatura. La Misericordia di Dio rende possibile la nostra risposta, ci preserva dal ricadere nel letale formalismo e legalismo della giustizia. La legge deve abitare nella carne, non può essere solamente scolpita nella pietra: l’uomo non può abitare nella pietra, ma solo nella carne”, sottolinea padre Marco. Mentre la giustizia trancia l’arto del malato, la Misericordia lo ricostruisce.
Il Papa vuole avvicinare all’uomo contemporaneo il mistero del Padre e del suo Amore Misericordioso, ma vuole che la Chiesa invochi e ricorra al Padre delle misericordie, professi e viva la misericordia di Cristo, della quale “l’uomo e il mondo contemporaneo hanno tanto bisogno, ne hanno bisogno, anche se sovente non lo sanno”. Tutta la storia della Salvezza non fa che dimostrare come l’amore misericordioso di Dio prevalga sul peccato e sull’infedeltà dell’uomo. Fin dalla prima caduta, il Padre cerca di liberare l’uomo dalla condizione di morte e di peccato, mettendolo in grado di vivere il progetto originale che Egli ha stabilito per lui.
Il primo termine dell’Antico Testamento che indica la Misericordia è rehamîm, “viscere”: con questa parola, si allude al sentimento intimo e profondo che lega due esseri per ragioni di sangue e di cuore, come avviene nel rapporto d’amore fra genitori e figli, o in quello tra fratelli (più avanti nella Parabola del Padre Misericordioso si farà riferimento al termine splanizomai, come contorcimento delle viscere materne ndr.). Questo amore tutto gratuito corrisponde ad una necessità interiore, a un’esigenza del cuore. Il secondo termine hesed designa bontà, pietà, compassione e perdono, e ha per fondamento la fedeltà: Dio è fedele a se stesso e mantiene la parola data. La paternità divina spinge Dio a circondare di un amore misericordioso tutti gli uomini: per questo Egli sceglie alcune persone e poi la nazione d’Israele, con cui stringere il patto di alleanza.
Osea esprime in forma eccezionale l’amore di Dio verso Israele, presentandoci il Signore come l’innamorato per eccellenza del suo popolo e ricorrendo a diverse metafore per descriverne i sentimenti verso l’uomo. Nel capitolo undici, accosta il rapporto di Dio con Israele a quello di un Padre verso il figlio: “Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os. 11, 1-4).
L’esperienza che il popolo dell’Antico Testamento ha di Dio è quella di un Dio indulgente che, amando il suo popolo esercita continuamente la propria grazia tanto verso gli individui quanto verso l’intera nazione. La sua misericordia, che vuole perdonare e dimenticare le colpe, è più potente di ogni peccato, come leggiamo nel Salmo 130: “Se considererai le colpe, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono perciò avremo il tuo timore” (Sal 130,3-4). L’impalcatura della “Dives in misericordia” ha come costanti e punti di riferimento l’uomo e il Padre: l’uomo storico, ogni singolo uomo nella storia “come creatura costituita in dignità naturale e soprannaturale, grazie alla convergente azione di Dio Creatore e del Figlio Redentore”, e il Padre dell’amore misericordioso che l’Antico Testamento evidenzia e il Nuovo rivela pienamente, il Padre necessario più di ogni altra cosa alla umanità contemporanea “orfana” e in grave difficoltà.
Se la Misericordia si è rivelata visibilmente in Cristo, per mezzo di Cristo si sono spalancate, nel loro significato definitivo, le porte del cuore del Padre delle misericordie. Nel Cristo pasquale è l’incarnazione definitiva della Misericordia, il suo segno vivente: storico salvifico ed insieme escatologico. L’inserimento della Resurrezione di Cristo nel tema della Misericordia permette al Papa di dire appunto che “il Figlio di Dio nella Sua resurrezione ha sperimentato in modo radicale su di sé la misericordia, cioè l’amore del Padre che è più potente della morte” e che Egli stesso “deve perennemente confermarsi più potente del peccato”.
Dio-Padre ha rivelato il Suo amore trasformante nel fatto e nel mistero del Cristo Risorto. L’uomo moderno dovrebbe quindi liberarsi dalle tesi della cultura dominante, dall’ideologia del “Padre-padrone”. Il significato della Misericordia in Dio e della nostra condotta cristiana è chiarito per dissipare le opposizioni attuali al Dio di misericordia che tendono perfino “a distogliere dal cuore umano l’idea stessa di misericordia”, chiarisce padre Marco. Queste opposizioni sono indicate da Giovanni Paolo II nel disagio che l’uomo moderno sembra portare davanti alla Parola e al concetto di Misericordia perché si è sentito tanto padrone e dominatore della terra da non dover lasciare spazio a nient’altro.
La “Dives in misericordia” ci ricorda che la Misericordia differisce dalla giustizia, però non contrasta con essa presupponendola e superandola come “una speciale potenza dell’amore di Dio”. Essa dunque – si legge ancora nell’Enciclica – è oltre la giustizia, avendo “la forma interiore dell’amore che nel Nuovo Testamento è chiamato agápe”. Nessuno ha da temere offesa per la giustizia da parte della Misericordia che, nella sua dimensione autenticamente cristiana, il Papa definisce “in certo senso la più perfetta incarnazione dell’eguaglianza tra gli uomini e, quindi, anche l’incarnazione più perfetta della giustizia”.
La Parabola del Padre Misericordioso serve, nel dettato dell’enciclica, a precisare “il rapporto della giustizia con l’amore, che si manifesta come Misericordia”. Questa non offende la dignità dell’uomo perché non cerca “un rapporto di disuguaglianza”, ma “si fonda sulla comune esperienza di quel bene che è l’uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria”. La fedeltà del Padre a se stesso è incentrata, infatti, sulla dignità del Figlio perduto, della sua Creatura. Quella stessa dignità che è pronto a perdere “correndo” incontro al figlio e mostrando le proprie gambe, gesto “riservato” unicamente ai servi.
Del resto l’amore misericordioso è un “dono” sull’altrui miseria e necessità e solo l’orgoglio può reputarlo un’offesa. Il mondo contemporaneo che ha perso la “categoria del dono”, come scriveva Theodor Adorno, può conseguentemente essere caduto in tale errore, ma “il dono” della Misericordia è senza offesa, “quando, attuandola, siamo profondamente convinti che, al tempo stesso, noi la sperimentiamo da parte di coloro che la accettano da noi” essendo tutti bisognosi di Misericordia. “Nel Mistero Pasquale ci è stata data la possibilità di vivere da cittadini del cielo: sta a noi vivere all’altezza del Padre, accogliendo la sua Misericordia”, conclude padre Marco, citando le parole di Don Primo Mazzolari: “Non a destra, non a sinistra, ma in alto”.
S.M.