La meditazione di Delpini durante il nostro pellegrinaggio 2019

Di seguito riportiamo una libera trascrizione della riflessione dell’Arcivescovo di Milano, S. Ecc. mons. Mario Delpini , ai partecipanti al pellegrinaggio di “Milano per S. Giovanni Paolo II”, il 1 giugno 2019

Missionari per mandato, per intima persuasione, per sollecitudine fraterna

Ho scelto questo tema perché S. Giovanni Paolo II ha fatto della missione, da lui personalmente vissuta anche con il viaggiare, con il visitare tutti i posti possibili della Terra, la sua vita. L’ho scelto anche perché papa Francesco ha indetto un mese missionario speciale proprio per il prossimo ottobre 2019, perché ricorre il centenario di un’enciclica che ha lanciato con insistenza la proposta missionaria nel senso di missio ad gentes. E infine l’ho scelto perché la missione, l’essere missionari, fa parte della natura dell’essere cristiani. Io qui ho messo tre spunti, gli altri sono semplicemente testi che chi vuole potrà leggere con calma.

1. Missionari per mandato

Il primo punto che ho annotato è che i cristiani sono missionari per mandato, cioè non hanno uno scopo loro, come per dire “devo trovare altri che condividono la mia fede perché altrimenti mi sento solo”, “devo trovare altri che aderiscono al mio movimento, alla mia iniziativa, perché così diventiamo più forti, più numerosi, più incisivi”; no, i cristiani sono missionari per mandato. Mandato vuol dire che Gesù ci ha chiamati a essere i suoi discepoli e l’ha fatto perché ci vuol bene, perché si fida di noi, sapendo che si fida di noi come si è fidato dei suoi primi dodici, che erano personaggi, come il Vangelo continua a documentare, piuttosto scarsi, piuttosto inaffidabili, piuttosto incostanti, anche piuttosto scentrati. Cioè loro seguivano Gesù, però sembra in molte pagine del Vangelo che loro avessero delle ambizioni piuttosto che della disponibilità. Vi ricordate quelli che dicono: “Facci sedere alla tua destra, alla tua sinistra”, quelli che dicono “Ma è adesso il tempo in cui ricostruirai il regno di Israele?”, quelli che litigavano per stabilire “chi è più importante tra di noi”? Poi quelli che l’hanno abbandonato: uno l’ha tradito, l’altro l’ha rinnegato, tutti lo abbandonarono. Questo è per dire che i primi discepoli, quelli che poi sono diventati apostoli, con tutto il prestigio che questa parola ha nella storia, non hanno fatto delle gran figure quando hanno accompagnato Gesù. Però questi sono quelli che Gesù ha mandato, li ha mandati per una missione assolutamente sproporzionata perché ha detto: “Voi mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Samaria, fino ai confini del mondo”, quindi una missione universale.

Ispirandoci un po’ a questo inizio, a me sembra che noi possiamo renderci conto che le nostre obiezioni a dare testimonianza del Signore sono infondate, cioè non è che il Signore ci incarica di portare il suo Vangelo nell’ambiente in cui siamo perché siamo bravi, perché siamo caratteri particolarmente determinati, perché ci sono le condizioni favorevoli… non è per questo. Noi siamo missionari per mandato; quindi vuol dire che la missione è obbedienza a Gesù, non è opera nostra, non è un’iniziativa nostra. E noi rispondiamo sapendo che Gesù non è che rimane alle spalle, Gesù continua a essere con noi, ed è con noi “tutti i giorni”, con la sua parola, con l’eucaristia, con la Chiesa, con lo Spirito Santo che abita dentro di noi. Quindi non siamo gente temeraria che dice: “Sì, adesso mi metto ad affrontare il mio ufficio, la mia scuola, il mio luogo di lavoro come terra di missione”, così come un temerario che si fa carico di un’impresa irrazionale. Ma piuttosto è perché Gesù ci manda, Gesù ci accompagna, e perciò ci purifichiamo da ogni tentazione di proselitismo, di esibizionismo, da ogni inclinazione alla timidezza, al ripiegamento su noi stessi, da ogni complesso di inferiorità. Mi pare che questo “essere mandati”, essere testimoni di quello che crediamo non per nostra iniziativa ma per obbedienza, fa sì che noi possiamo concepire ogni situazione come occasione. La situazione dà l’idea di una cosa che ci è costruita attorno, sui cui non abbiamo né meriti né colpe in un certo senso: l’ambiente che ci troviamo, la famiglia in cui siamo nati, il palazzo in cui abitiamo, sono situazioni. L’arte del cristiano è quella di – proprio perché condotto dallo Spirito Santo – trasformare ogni situazione, ogni luogo dato, in occasione, cioè in luogo adatto per comunicare quello che il Signore ci ha affidato.

2. L’intima persuasione

Un secondo motivo per cui siamo missionari è quella che io qui ho chiamato l’intima persuasione. Cioè: noi abbiamo vissuto secondo le nostre storie, non è che tutti siamo uguali, non tutti abbiamo lo stesso livello di convinzione, legittimamente ciascuno porta con sé le sue persuasioni, i suoi dubbi, le sue fragilità, i suoi slanci; però chi ha fatto esperienza della salvezza di Gesù capisce che Gesù è il Salvatore e questa esperienza dell’essere salvati non è una specie di “condono”, come se Dio dicesse: “Tu sei peccatore ma io sono buono, e ti perdono”, non è questa forma un po’ legalistica la salvezza; la salvezza è essere resi partecipi della gioia di Dio, della vita di Dio. Quando noi diciamo “siamo stati salvati” non diciamo “siamo stati dichiarati innocenti anche se siamo peccatori”, ma piuttosto “siamo stati accolti nella festa di Dio”, come quel figlio che se n’era andato a sperperare il suo patrimonio, torna a casa e il padre organizza la festa per lui, perché è un figlio ritrovato, senza porre troppa attenzione al patrimonio sperperato, alla vita disordinata che questo figlio ha condotto. Questo per dire che la salvezza non si riassume soltanto nell’andare in Paradiso, nel dire “alla fine tutti si salveranno”, ma la salvezza è una vita che diventa la vita del figlio di Dio, e questo ci rende partecipi dei suoi sentimenti, del suo modo di guardare gli altri, del suo modo di leggere la storia, di una mentalità che è cristiana. E dunque chi è stato destinatario del dono dello Spirito – penso tutti noi, avendo ricevuto il battesimo e la cresima – è abitato da questa presenza dello Spirito che arde in noi. Quindi l’esperienza di essere salvati non è un’esperienza privatistica – io e il mio Dio, io che sento vicino Gesù – ma è l’esperienza di essere conformati a Gesù, di condividere i suoi sentimenti. Questa intima persuasione di una vita salvata ci rende inclini a comunicarla. Quindi diventiamo missionari perché abbiamo qualcosa da dire, ma non qualcosa da dire semplicemente nel senso del catechismo, di dottrine da comunicare. Certo, se uno fa il catechista fa anche quello, però è molto più normale la condivisione della fede nel dare un giudizio cristiano su quello che si fa, nell’introdurre elementi di valutazione cristiana nel modo in cui sia affrontano la vita di famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro che uno fa, il rapporto con le persone che uno incontra. Cioè: è proprio un modo cristiano di vivere che ci rende capaci di essere testimoni, missionari perché mandati. Questa “intima persuasione” vuol dire semplicemente l’esperienza di avere ricevuto il dono della vita di Dio che porta un po’ spontaneamente a parlarne, non tanto per fare una lezione di teologia, quanto per condividere una visione del mondo.

3. La sollecitudine fraterna

Il terzo motivo è questa sollecitudine fraterna che porta a considerare la miseria di quelle persone che non hanno una speranza di vita, la banalità di una vita umana, di una vita professionale, di una famigliare che non ha esperienza della presenza di Dio, quindi questa tristezza che c’è nel mondo, questa inclinazione alla malinconia, al lamento per tutto quello che c’è, allo scontento. Certo, tutto questo è anche giustificato magari dal fatto che il mondo è un po’ difficile, che le situazioni sono un po’ complicate, però credo che venga soprattutto da una scontentezza che c’è dentro, e che impedisce di vedere il bene che c’è, il bene che si fa, di vedere la vita come un’occasione e non soltanto come una specie di predestinazione alla morte. Quindi la sollecitudine fraterna nasce dal quel dispiacere che proviamo quando vediamo la gente scontenta, la gente disperata, la gente che vive a caso, non perché noi ci permettiamo di giudicare gli altri, ma perché dispiace di vedere come persone che hanno senz’altro delle qualità, magari anche delle intuizioni belle, sono però un po’ come imprigionate in questa specie di tristezza, di rassegnazione a vivere come gente che è condannata a morte, perché evidentemente se uno non crede a Dio e alla vita eterna è chiaro che tutto quello che può credere è che fin quando siamo vivi, siamo vivi, poi finiamo nel nulla, quindi non c’è speranza.

Questi sono tre spunti per intenderci come missionari, come cristiani, che ricevono un mandato, che hanno una persuasione personale della bellezza e dell’ardore di questa appartenenza e che sentono una responsabilità verso gli altri.

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Invece i testi che ho riportato sono tre. Innanzitutto la Lettera di San Paolo ai Filippesi, capitolo 1. In questi primi versetti Paolo scrive ai Filippesi nel momento in cui si trova in carcere come uno che turba l’ordine pubblico, perché l’ostilità dei giudei nei suoi confronti creava confusione, quindi la soluzione è stata di mettere in carcere Paolo e Sila. Però la cosa che mi ha impressionato di questo testo è questo passo: “Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo, al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa che io sono prigioniero per Cristo”. Cioè lui essendo carcerato, cioè in una situazione di fatica, di sospetto, ha talmente parlato di Gesù che tutti sanno che lui è lì perché è cristiano. È questa idea che mi ha indotto a pensare che ogni situazione può essere occasione.

Il secondo testo è un’enciclica di Giovanni Paolo II, la Redemptoris Missio, dedicata alla missione. La propongo come testo alla vostra riflessione e magari come tema per il prossimo appuntamento, la messa per San Giovanni Paolo II che il nostro gruppo propone ogni anno. Forse si potrebbe usare questo tema visto che la veglia e la messa si svolgono nel mese di ottobre, che è il mese missionario speciale.

E poi ho riportato anche le prime righe dell’enciclica Evangelii Gaudium di Papa Francesco, che parla proprio di questa gioia del Vangelo che siamo chiamati a condividere e comunicare.