Estratto dalla conferenza pronunciata dal Cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, al convegno organizzato dalla Pontificia Università Lateranense dedicato ai venticinque anni del pontificato, il 9 maggio 2003.

La prima enciclica “Redemptor hominis”, è la più personale, il punto di partenza di tutte le altre. Sarebbe facile dimostrare che tutti i temi successivi si trovano anticipati in essa: il tema della verità ed il vincolo tra verità e libertà viene affrontato secondo tutta l’importanza che ha, in un mondo che vuole libertà ma considera la verità una pretesa e il contrario della libertà.

Lo zelo ecumenico del Papa si può già apprezzare in questo primo grande testo magisteriale. I principali tratti dell’enciclica eucaristica – Eucarestia e sacrificio, sacrificio e redenzione, Eucarestia e penitenza – sono già esposti nelle loro grandi linee. L’imperativo “non ucciderai”, che è il grande tema della “Evangelium vitae”, è annunciato con grande forza al mondo. Come abbiamo visto, l’orientamento del cristiano verso il futuro, tipica del Papa, è in relazione con il tema mariano. Per il Papa, il vincolo tra la Chiesa e Cristo non è un vincolo con il passato, un orientamento all’indietro, bensì il vincolo tra di chi è e da’ futuro, che invita la Chiesa ad aprirsi ad un nuovo periodo della sua fede. Il suo impegno personale, la sua speranza, ma anche il suo profondo desiderio che il Signore ci conceda un nuovo presente di fede e di pienezza di vita, una nuova Pentecoste, risulta evidente quando, quasi come un’esplosione, prorompe in un’invocazione: “la Chiesa del nostro tempo sembra ripetere con sempre maggiore fervore e con santa insistenza: “Vieni, o Santo Spirito!”. Vieni! Vieni!” (“Redemptor hominis”, 18). Tutti questi temi che, come abbiamo già detto, anticipano tutta l’opera magisteriale del Papa, sono collegati da una visione la cui direzione fondamentale dobbiamo cercare di descrivere.

In occasione degli Esercizi che, come cardinale arcivescovo di Cracovia, predicò nel 1976 a Paolo VI e alla Curia romana, spiegava che gli intellettuali cattolici polacchi, nei primi anni del dopoguerra, avevano inizialmente cercato di confutare – contro il materialismo marxista già divenuto dottrina ufficiale – il valore assoluto della materia. Ma il centro del dibattito si spostò subito: non versava già più sulle basi filosofiche delle scienze naturali (benché questo tema mantenesse sempre la sua importanza), ma sull’antropologia. Il nucleo della discussione divenne: cos’è l’uomo? La questione antropologica non è una teoria filosofica sull’uomo; ha un carattere esistenziale. La questione della Redenzione soggiace a tale questione. Come può vivere l’uomo? Chi ha la risposta sull’uomo? Una questione molto concreta: chi può insegnarci a vivere, il materialismo, il marxismo o il cristianesimo?

Così, la questione antropologica è una questione scientifica e razionale ma, al contempo, è anche una questione pastorale: come possiamo mostrare agli uomini la strada che porta alla vita e aiutare anche i non credenti a capire che i loro interrogativi sono anche i nostri e che, di fronte al dilemma dell’uomo di ieri e di oggi, Pietro aveva ragione quando disse al Signore: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). Filosofia, pastorale e fede della Chiesa si fondono in questa tensione antropologica.

Nella sua prima enciclica, “Redemptor hominis”, Giovanni Paolo II ha riassunto, per così dire, i frutti del cammino percorso fin da allora in qualità di pastore della Chiesa e di pensatore del nostro tempo. Quella prima enciclica gravita attorno alla questione dell’uomo. L’espressione: “L’uomo […] è la prima fondamentale via della Chiesa” (Ib., 14) è diventata quasi un lemma. Tuttavia, citandola, ci dimentichiamo spesso che poco prima il Papa aveva detto: “Gesù Cristo è la via principale della Chiesa. Egli stesso è la nostra via “alla casa del Padre”, ed è anche la via a ciascun uomo” (Ib., 13). Di conseguenza, anche la formula dell’uomo come prima via della Chiesa, prosegue così: “via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione” (Ib., 14).

Per il Papa, antropologia e cristologia sono inseparabili. Proprio Cristo ci ha rivelato cos’è l’uomo e dove deve andare per trovare la vita. Questo Cristo non è solo un modello dell’esistenza umana, un esempio di come si deve vivere, ma “si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Ibid.). Cristo tocca la nostra interiorità, la radice della nostra esistenza, trasformandosi così, dall’interiorità, nella via per ogni uomo. Rompe l’isolamento dell’io; è garanzia della dignità indistruttibile di ogni persona e, nello stesso tempo, è Colui che supera l’individualismo in una comunicazione alla quale aspira tutta la natura dell’uomo.

Per il Papa, l’antropocentrismo è allo stesso tempo cristocentrismo e viceversa. Contro l’opinione secondo la quale solo attraverso le forme primitive dell’essere umano (partendo dal basso, per dirla così) si può spiegare cos’è l’uomo, il Papa sostiene che solamente partendo dall’uomo perfetto si può capire cos’è l’uomo: e da questo punto di vista si può intravedere la via dell’essere umano. A questo proposito, avrebbe potuto far riferimento a […] che diceva: “La soluzione scientifica del problema umano non deriva esclusivamente dallo studio dei fossili, ma da un’attenta osservazione delle caratteristiche e delle possibilità dell’uomo di oggi, che determineranno l’uomo di domani“. Naturalmente, Giovanni Paolo II va molto oltre questa diagnosi: in definitiva, possiamo capire cos’è l’uomo solo guardando a Colui che realizza pienamente la natura dell’uomo, che è immagine di Dio, il Figlio di Dio, Dio da Dio e Luce da Luce. Ciò corrisponde perfettamente all’orientamento intrinseco della prima enciclica, la quale, nel successivo Magistero pontificio, si è sviluppata formando, congiuntamente ad altre due encicliche, il trittico trinitario. La questione dell’uomo non si può disgiungere dalla questione di Dio. La tesi di Guardini, secondo la quale conosce l’uomo soltanto chi conosce Dio, trova una chiara conferma in questa fusione dell’antropologia con la questione di Dio.

Diamo ora uno sguardo alle altre due tavole del trittico trinitario.

Il tema di Dio Padre sembra velato, per così dire, in primo luogo sotto il titolo “Dives in misericordia”.

Si può credere che l’idea di trattare questa tematica sia venuta al papa dalla religiosa di Cracovia Faustina Kowalska, che successivamente ha elevato all’onore degli altari. Mettere al centro della fede e della vita cristiana la misericordia di Dio è stato il grande desiderio di questa santa donna. Con la forza della sua vita spirituale, ella pose in risalto la novità del cristianesimo proprio nel nostro tempo, segnato dall’irreligiosità delle sue ideologie. Basta ricordare che Seneca, un pensatore del mondo romano per molti aspetti piuttosto vicino al cristianesimo, disse una volta: “La compassione è una debolezza, una malattia“. Mille anni dopo, san Bernardo di Chiaravalle, con lo spirito dei Santi Padri, trovò la mirabile formula: “Dio non può patire, ma può compatire“.

Ritengo molto indovinato che il Santo Padre abbia centrato la sua enciclica su Dio Padre sul tema della misericordia divina. Il primo sottotitolo dell’enciclica è: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14, 9). Vedere Cristo significa vedere il Dio misericordioso. Conviene sottolineare che in questa enciclica la digressione sulla terminologia biblica della misericordia divina nell’Antico Testamento occupa niente meno che tre pagine. In essa si spiega anche la parola “rahamin”, che proviene dal termine “rehem” (ventre materno) e conferisce alla misericordia di Dio i tratti dell’amore materno.

L’altro punto centrale dell’enciclica è la sua profonda interpretazione della parabola del Figliol Prodigo, nella quale l’immagine del padre risplende in tutta la sua grandezza e bellezza.

Voglio anche dedicare poche parole all’Enciclica sullo Spirito Santo, nella quale si tratta il tema della verità e della coscienza. Secondo il Papa l’autentico dono dello Spirito Santo è “il dono della verità della coscienza e il dono della certezza della redenzione” (“Dominum et vivificantem”, 31). Pertanto, nella radice del peccato c’è la menzogna, il rifiuto della verità. “La ‘disobbedienza’, come dimensione originaria del peccato, significa rifiuto di questa fonte, per la pretesa dell’uomo di diventare fonte autonoma ed esclusiva nel decidere del bene e del male” (Ib., 36). La prospettiva fondamentale dell’enciclica “Veritatis splendor” appare qui già molto chiaramente. E’ evidente che il Papa, proprio nell’enciclica sullo Spirito Santo, non si ferma nella diagnosi della nostra situazione di pericolo, bensì effettua tale diagnosi per preparare il cammino alla terapia. Nella conversione, l’affanno della coscienza si trasforma in amore che sana, che sa soffrire: “Il dispensatore nascosto di questa forza salvatrice è lo Spirito Santo” (Ib., 45).